Quando le sostanze dannose messe al bando negli sport possono rivelarsi preziosi strumenti per lo sviluppo
di nuove terapie e cure per la vita di tutti i giorni dei cittadini

DOPING E SPORT ALL' ALBA DELL' ERA MEDIATICA

Il doping è fenomeno sociale, non solo fatto sportivo; è manifestazione culturale e non mera materia medico-farmacologica. Nei tratti attuali del doping emerge il carattere controverso e mutevole della morale con cui si misurano i fatti sportivi, con cui si giudica il gigantesco sistema mediatico e di mercato ad essi legato a doppio filo. Appare con chiara evidenza il ruolo delle pressioni economiche nello sport, i contrasti cui queste ultime danno vita quando si incontrano e si scontrano con l’ideale dell’etica sportiva.

Ciononostante l’attenzione dei media, della magistratura sportiva ed ordinaria, ma anche della ricerca scientifica sulle varie componenti del problema sembra focalizzarsi progressivamente sulle dimensioni tecniche del fenomeno, sostanze e metodiche, come se il doping fosse il parto esclusivo di una scienza e di una medicina piegata agli interessi del denaro.

Nel dopoguerra, il consumo di sostanze stimolanti dilagava su base epidemica, conquistando la pratica sportiva, sospinto anche dalla irrefrenabile immissione nel mercato delle scorte di amfetamine prodotte per gli eserciti in guerra. Sempre più numerosi, così, si facevano i casi di emergenze mediche da doping, gli episodi mortali. In Italia susciatava forte impressione la morte del ciclista Alfredo Falzini al termine della Milano-Rapallo del 1949 a causa dell’ingestione di simpamina e steanina.
Nel decennio successivo, il il consumo di amfetamine da parte degli sportivi continuava a crescere. Il problema diveniva oggetto di discussione, la prima sul tema del doping, di una seduta del Comitato Olimpico Internazionale (CIO) a San Francisco, nel 1960. Il presidente Avery Bundage rilevava la gravità del fenomeno e domandava ai membri dell’assemblea di riportare la questione all’attenzione dei governi sportivi dei rispettivi paesi.

La preoccupazione del CIO si dimostrava purtroppo fondata. Pochi mesi più tardi, il 20 agosto 1960 a Roma, durante la gara olimpica dei 100 chilometri su strada, moriva il ciclista danese Knut Enemark Jensen.

L’attenzione del CIO e i gravi incidenti da amfetaminici occorsi numerosi anche nelle gare tra dilettanti convincevano alcune federazioni sportive italiane della necessità di avere un chiaro quadro epidemiologico del problema. Nel 1961, un’inchiesta della federcalcio rivelava che il 22% dei calciatori italiani usava sostanze stimolanti e tra questi circa l’80% assumeva amfetamine. L’anno successivo una campagna antidoping della federazione ciclistica denunciava una condizione ancora più allarmante: ben il 50% dei ciclisti sottoposti ad esame risultavano positivi, soprattutto alle amfetamine.

Il 13 luglio 1967, nel corso della tredicesima tappa del Tour de France, durante la terribile ascesa verso la cime del mont Ventoux, il ciclista britannico Tom Simpson crollava sfinito a terra dopo essere caduto una prima volta. Ogni tentativo di rianimazione risultava vano. Simpson moriva all’ospedale di Avignone. L’esame post-mortem indicava nelle amfetamine la causa principale del decesso.

L’anno successivo l’amfetamina faceva la sua prima vittima nel mondo del calcio. Ma il calciatore francese Luois Quadri era forse l’ultimo caso famoso di decesso per amfetamine. Negli anni Sessanta infatti la pratica del doping aveva lentamente mutato volto. Ciò si doveva in parte alla necessità di sfuggire ai controlli per gli amfetaminici che si erano venuti via via diffondendo nelle più importanti gare sportive ed in parte per i progressi stessi della ricerca farmacologica finalizzata al doping.

Dalla fine degli anni ’50, l’evoluzione qualitativa e quantitativa del doping si alimentava tuttavia anche da territori piuttosto distanti dalla pura ricerca medica e farmacologica. Quattro fattori principali vanno considerati a tal fine:
1) Il forte significato politico assegnato alle competizioni sportive internazionali con l’inizio della guerra fredda. Lo sport diventava un terreno privilegiato di confronto e di studio reciproco tra i due blocchi ideologici facenti capo agli Stati Uniti e all’Unione Sovietica. Nello sport la corsa agli armamenti si configurava come applicazione scientifica, sistematica e statualmente organizzata di pratiche dopanti.

2) Il nuovo atteggiamento sociale di fronte alle droghe diffusosi con il movimento di contestazione giovanile a partire dalla seconda metà degli anni ’60, più aperto, se non talora scopertamente favorevole al consumo e incline ad incoraggiare la sperimentazione nell’uso.

3) La riformulazione del concetto di salute all’interno del nuovo quadro sociale per i valori e i comportamenti fortemente orientato verso il successo, l’efficienza, l’elevato livello di impegno e funzionalità, la capacità di adattarsi ad elevati livelli di stress. E corrispondentemente il definitivo delinearsi di una società morbosa, farmaco-centrica e medicalizzata, in cui con ingenuo fideismo e talora con modalità compulsive si cerca nei farmaci la soluzione immediata ad ogni minuto problema di natura fisica, spesso semplicemente estetico, al disagio psicologico più trascurabile.

4) La spettacolarizzazione dello sport, soprattutto la trasmissione televisiva dell’evento sportivo, fenomeno che ha impresso un’accelerazione impressionante alla commercializzazione e alla colonizzazione economica delle attività sportive. Lo sport come spettacolo muove flussi di denaro colossali, induce alla ricerca ossessiva del risultato eccezionale, del primato ad ogni costo: i record fanno lievatare i guadagni per i diritti televisi, gonfiano i profitti e le quotazioni in borsa delle ditte che sponsorizzano l’evento sportivo eclatante, l’atleta e il team vincenti, moltiplicano i guadagni dei campioni. Inoltre, nello sport dei guadagni miliardi, potente ed unico mezzo di promozione sociale per alcune fasce di popolazione, si impone un nuovo calcolo del rapporto tra costi e benefici. L’infanzia e l’educazione sacrificate agli allenamenti, i rischi per la salute legati ai trattamenti medico-farmacologici possono ben valere gli “utili” economici e sociali legati all’affermazione sportiva.

Dagli steroidi agli ormoni umani ricombinanti: il doping endocrino
Alla fine degli anni ’50, l’orizzonte del doping si ampliava, agganciandosi all’emergere e allo sviluppo dell’endocrinologia. Il doping a base di ormoni, che risaliva all’antichità, era stato riproposto alla fine dell’Ottocento da Charles Brown-Sequard, uno dei padri della moderna endocrinologia. Il medico francese, che sosteneva di averne sperimentato personalmente i positivi effetti, prescriveva una terapia energizzante a base di estratti di testicoli di cane e di cavallo. La celebrata azione rivitalizzante del doping organoterapico di Brown-Sequard, tuttavia, era frutto esclusivo della suggestione, un effetto placebo. Gli estratti di testicolo infatti contengono quote irrisorie o nulle di ormoni steroidei androgeni, dato che gli organi sessuali maschili non immagazzinano gli ormoni sintetizzati.

Il doping ormonale diventava effettivamente praticabile nel 1935, quando Ernest Laquer isolava il testosterone. L’uso in clinica di questi steroidi anabolizzanti era finalizzato al trattamento dell’ipogonadismo. Ma la pratica sperimentale preclinica e la successiva applicazione in terapia dimostravano che tali sostanze potevano facilitare la crescita dei muscoli scheletrici. Ciò portava al loro utilizzo da parte di atleti che avevano la necessità di sviluppare fortemente la massa muscolare, come i praticanti di body building, o la potenza, come i sollevatori di pesi, i lanciatori di peso, di giavellotto, di martello, i discoboli.

L’uso di steroidi con metodiche mirate si estendeva successivamente a tutti gli sport. Verso la fine degli anni ’30, Paavo Nurmi, il “finlandese volante”, invincibile fondista del ventennio precedente la seconda guerra mondiale, vincitore di 9 ori olimpici e tre medaglie d’argento in tre diverse olimpiadi, faceva da testimonial alla pubblicità di un farmaco ricostituente ed energizzante a base di testosterone da lui stesso usato. Nel 1939, il Wolverhampton, un team inglese di calcio, addirittura sperimentava la somministrazione di steroidi anabolizzanti su tutti i componenti della squadra. Con la fine degli anni Cinquanta il consumo di steroidi nel mondo dello sport raggiungeva una dimensione epidemica, interessando anche discipline più tecniche, come il tennis. Nel 1959, ad esempio, il tennista spagnolo Andres Gimeno confessava di farne uso.

Per gli sport di durata negli anni Settanta era stata introdotta, nello sci di fondo e nel ciclismo, l’autotrasfusione. Obiettivo di tale metodica era l’aumento della massa eritrocitaria, cioè a dire del numero dei globuli rossi e quindi del trasporto di ossigeno verso i muscoli. Questo razionale era alla base della prima forma di doping di tipo biotecnologico. Nel 1977, Miyake e i suoi collaboratori isolavano e purificavano l’ormone stimolante la produzione di globuli rossi, l’eritropoietina (EPO), dall’urina umana. Successivamente nei laboratori del Genetics Institute e di Amgen, due industrie biotecnologiche, veniva determinata la struttura degli aminoacidi dell’EPO pura, quindi identificato il gene, clonato e transfettato in cellule ovariche di cavia. Nel 1985 l’eritropoietina umana ricombinante entrava in commercio. Si apriva una nuova era per la cura delle malattie del sangue da carenza di eritrociti. Allo stesso tempo, però, la somministrazione di EPO, che mima gli effetti di un intenso allenamento in quota, diventava in breve una pratica generalizzata nella corsa e nello sci di fondo, ma soprattutto nel ciclismo, disciplina che ha infine consegnato la sostanza al clamore della cronaca nei Tour de France corsi nel 1998 e nel ‘99.

Nella seconda metà degli anni ’80, un’altra sostanza endocrina conquistava il gigantesco mercato dello sport: l’ormone della crescita (GH). La diffusione dell’uso del GH si è accompagnata ad un notevole incremento di farmaci e supplementi alimentari che stimolano la produzione e il rilascio del GH endogeno, come certi aminoacidi, i beta-bloccanti, la clonidina (un farmaco antipsicotico di ultima generazione), la levodopa e la vasopressina. Il GH rappresentava un valido sostituto degli steroidi anabolizzanti in quanto anch’esso stimola l’aumento della massa corporea e possiede azione anabolizzante. In aggiunta il GH aumenta la mobilizzazione dei lipidi dai tessuti adiposi ed accresce l’ossidazione come fonte di energia, risparmiando il glicogeno muscolare. Tuttavia, nessuno studio attestava conclusivamente degli effetti ergogenici del GH sugli atleti, ciononostante questo ormone diventava un elemento essenziale della preparazione di molti atleti di punta, soprattutto per il fatto che non esisteva e non esiste tuttora un test in grado di rilevarne il consumo.

L’uso del GH è stato indicato come causa della malattia di Creutzfeldt-Jakob, una delle forme umane di encefalopatia causata dai prioni, come il cosiddetto morbo della mucca pazza. L’ormone della crescita veniva estratto dall’ipofisi dei cadaveri. È verosimile quindi che alcuni alcuni lotti siano stati contaminati dal virus a lunga incubazione che causa la malattia di Creutzfeldt-Jakob. E, dato che non esistevano metodi per rilevare la presenza di tale contaminante, il GH veniva ritirato dal mercato nel 1985. L’anno successivo le ricerche biotecnologiche portavano alla produzione del GH umano ricombinante, il cui uso nello sport tuttavia non è esploso come gli steroidi per i suoi costi e per la difficoltà di acquistarlo allo stato puro.

Più recentemente, un altro prodotto della ricerca biotecnologica con potenti effetti anabolizzanti ha iniziato la conquista del mercato del doping: l’IGF-1. L’IGF-1 (insulin-like Growth Factor) è un peptide analogo alla proinsulina usato nella terapia di alcune forme di nanismo e nella cura del diabete resistente all’insulina. Come l’EPO e il GH, l’uso di IGF-1 non è attualmente rilevabile con i test antidoping.

Non sono stati pochi in questi anni i deliri da febbre del doping o le esagerate speranze riposte in alcune sostanze farmacologiche e integratori alimentari. Alla fine degli anni Cinquanta, ad esempio, l’olio di germe di grano divenne popolarissimo tra gli sportivi quando si diffuse la notizia che i nuotatori americani lo avevano introdotto nella dieta durante la preparazione delle Olimpiadi di Melbourne del 1956, dove avevano colto successi importanti ed alcuni record mondiali. Ancora più famosa ed abusata da sportivi di ogni livello diveniva la carnitina somministrata dai preparatori alla nazionale italiana di calcio ai mondiali di Spagna del
1982.

Biotecnologia e ingegneria genetica: l’inizio di una nuova era del doping?


Questo per le sostanze più conosciute e per le pratiche accertate e maggiormente diffuse. La dimensione ufficiale del doping è nulla però se confrontata con la grandezza reale del fenomeno. Hein Verbruggen, presidente della federazione internazionale di ciclismo, suggerisce che le sostanze e le pratiche dopanti oggi non rilevabili dai test e non incluse nelle tabelle costituiscono il 90% dei casi stimati di doping.

Ma non è soltanto questa enorme discrepanza tra doping ufficiale e doping reale l’elemento che più deve indurre a riflettere. Fenomeni ben più significativi sono la rapida estensione allo sport delle applicazioni biotecnologiche e dell’ingegneria genetica o addirittura l’uso dello sport come laboratorio per la sperimentazione di nuovi prodotti biotecnologici e protocolli della manipolazione genetica.

Mentre infuriano gli infecondi e strumentali strepiti del dibattito bioetico e politico determinato dall’isolamento negli embrioni umani delle cellule staminali, si sta già ipotizzando lo studio dell’utilizzo di queste cellule, capaci di riparare e dar vita ad ogni tipo di tessuto biologico, per aumentare in maniera non rilevabile, le performance psicofisiche degli atleti.

In linea di principio, è ormai realizzabile il doping genetico, potenziando le funzioni fisiologiche con la diretta manipolazione del DNA, come si fa con la terapia genica somatica. Vista l’evoluzione della scena sportiva, ancora più suggestive ed inquietanti risultano le prospettive della terapia genica germinale. Questa metodica, applicata sulle cellule della linea germinale, permette di trasmettere i suoi effetti alla prole dell’individuo trattato. È una possibilità strabiliante che mette nelle mani dell’uomo un potere che la natura dispiega in millenni e, vista la direzione evolutiva assunta dallo sport legato al mercato e ai media, alimenta incognite, adombra minacciosi scenari a venire.

Le fenomenali potenzialità della applicazioni allo sport dell’ingegneria genetica e della biotecnologia, tutte peraltro non rilevabili dai test antidoping, non costituiscono tuttavia il motivo primario di inquietudine nella scena sportiva attuale. La storia e l’analisi critica del fenomeno e delle sue rappresentazioni sociali suggeriscono che il problema del doping è caratteristicamente una questione etica. Le dimensioni del doping non sono tanto legate alla capacità tecniche di manipolare le funzioni psicofisiche degli atleti quanto ai contesti morali e simbolici più generali in cui si realizzano le attività sportive, ai valori rappresentati nelle competizioni tra atleti, alle regole cui questi valori danno forma, alle finalità che nello sport e attraverso di esso vengono perseguite.

Nessun commento:

Posta un commento