Quando le sostanze dannose messe al bando negli sport possono rivelarsi preziosi strumenti per lo sviluppo
di nuove terapie e cure per la vita di tutti i giorni dei cittadini

CERTI RIFIUTI SI PAGANO CARO

Il doping è uno degli aspetti più pericolosi e negativi legati allo sport: oltre a minare alla base il concetto di sport come veicolo di valori positivi sia a livello fisico che psicologico, è una fonte di problemi, paure e delusioni non solo per chi ne fa uso, ma anche per quegli atleti che decidono nonostante tutto di rimanere puliti.
Ecco la testimonianza di una giovane ex ciclista, che da questo momento in poi chiameremo Cristina per rispetto della sua privacy, che dopo una brillante carriera che l’ha portata fino ai campionati mondiali si è vista chiudere tutte le porte in faccia per avere detto «no» al doping.

La crescita sportiva di Cristina è stata veloce quanto promettente.
«Ho iniziato a correre in bicicletta nel 1994, a 14 anni, e dopo un anno avevo già vinto la prima gara», racconta.
«Poi è stato un continuo girare per l’Italia con diverse squadre, con cui ho ottenuto numerose vittorie, fino a quando nel 1997 sono stata convocata ai Mondiali di Ciclismo in Sud Africa per la categoria juniores: è stata un’emozione incredibile».

Peccato che la gioia di Cristina sia stata offuscata da una grande amarezza. «Una volta arrivata in Sud Africa», confessa, «pochi giorni prima della gara il commissario tecnico della Nazionale Italiana e alcuni collaboratori hanno proposto a me e alle altre 6 ragazze della squadra di fare alcune punture con farmaci senza nome, dicendoci che erano solo vitamine. Era evidente però il contrario: si trattava di sostanze dopanti, anche se nessuna di noi sapeva esattamente quali. Io e un’altra ragazza abbiamo rifiutato, le altre 5 no».

Perché, le chiedo, sei convinta si trattasse di doping? «Quando ho chiesto cosa fossero quei farmaci mi hanno risposto solo che servivano per respirare meglio», dice Cristina, «ma quando una mia compagna di squadra, che aveva fatto le famose punture, è arrivata seconda davanti a me ho capito che qualcosa non andava: prima di allora non mi aveva mai battuta».

Ma non c’erano controlli medici prima della gara? «Sì», risponde Cristina, «ma chi somministra doping agli atleti sa il fatto suo: le concentrazioni sono studiate per sfiorare i limiti consentiti dalla legge senza superarli, e se questo non basta si ricorre allo scambio dei campioni di sangue e urina».

Come ci spiega Cristina, una volta entrati nel giro dello sport agonistico ci si accorge che queste cose sono all’ordine del giorno: tutti lo sanno, dagli atleti ai preparatori ai medici sportivi, ma nessuno interviene. «Del resto», aggiunge lei, «tacere è nell’interesse di tutti: degli atleti che diventano ricchi e famosi, degli allenatori che risplendono della loro fama e dei comitati nazionali che portano prestigio al loro paese».

Eppure riconoscere le ragazze dopate è tutt’altro che difficile: «hanno la muscolatura da uomo, la voce roca e una fitta peluria sul volto e sul petto, a causa degli ormoni della crescita e degli altri anabolizzanti. E corrono troppo veloce».
«Sia chiaro», aggiunge Cristina, «per raggiungere quei risultati bisogna comunque essere allenate, ma la differenza tra una prestazione pulita e una aiutata è evidente».

La delusione per Cristina è stata grande, e la speranza che si trattasse di una realtà limitata ai mondiali si è infranta presto. «L’anno dopo», dice, «ho partecipato ai Campionati Europei di ciclismo, e di nuovo la stessa situazione: punture miracolose, pillole senza nome e controlli pilotati», dice Cristina. «Io ho rifiutato di nuovo, e di nuovo sono stata battuta da atlete che, a differenza di me, avevano scelto la via del doping senza pensare alla loro salute».

«Per le straniere, poi, è ancora peggio: molte vengono da gravi condizioni di povertà, e per guadagnare soldi e abbandonare un paese oppresso sono disposte a tutto», aggiunge amaramente Cristina.
«Per noi italiane è diverso: nonostante i sacrifici e la fatica per arrivare in alto, siamo ancora libere di dire di no al doping e non mettere a rischio la nostra vita. Però certi rifiuti si pagano cari: nonostante le mie capacità e l’entusiasmo con cui ero stata lanciata all’inizio, l’anno dopo non sono stata riconvocata, e la porta del successo mi è stata sbattuta in faccia. In un mondo di cicliste dopate non potevo reggere la concorrenza senza doparmi io stessa, non potevo vincere e quindi agli sponsor non interessavo più. É stato allora che ho detto addio al ciclismo: ora il solo vedere una bicicletta mi fa schifo».

1 commento:

  1. per la serie...a chi bara gloria ed onore... a chi cerca di fare la cosa giusta neanche le briciole...

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