Quando le sostanze dannose messe al bando negli sport possono rivelarsi preziosi strumenti per lo sviluppo
di nuove terapie e cure per la vita di tutti i giorni dei cittadini

IL DILEMMA DEL DOPING

Ecco la traduzione integrale dell'articolo di Michael Shermer


- La teoria dei giochi aiuta a capire perché l'uso di sostanze proibite è molto diffuso nel ciclismo, nel baseball e in molti altri sport. –

Per un ciclista non c'è niente di più demoralizzante che essere superato da un avversario su una salita. Con i polmoni e le gambe allo stremo, curvo sul manubrio, il ciclista sa che deve rimanere con il gruppo dei primi, perché se perderà il contatto la sua motivazione sfumerà insieme alle speranze di vittoria.

Conosco questa sensazione, perché l'ho dovuta affrontare nel 1985 sulla lunga salita dopo Albuquerque durante la Great American Bike Race, una gara di quasi 5000 chilometri che attraversa gli Stati Uniti. Appena fuori dalla città avevo raggiunto il secondo, Jonathan Boyer (che poi vinse), il primo statunitense a partecipare al Tour de France. Verso metà di quella salita spaccagambe ho iniziato ad accusare la fatica muscolare e ad annaspare nel disperato tentativo di resistere, ma inutilmente. Arrivato in cima, Boyer era già un puntino all'orizzonte, e non l'ho più rivisto fino al traguardo. Più tardi un cronista mi avrebbe chiesto che cos'altro avrei potuto fare per andare più veloce. «Scegliere genitori migliori», ho risposto scherzando. Tutti abbiamo limiti genetici, ho poi spiegato, che non si possono superare con l'allenamento. Ma davvero non c'era nient'altro che avrei potuto fare?

In realtà avrei potuto fare parecchie cose, e lo sapevo benissimo. I membri della squadra che aveva partecipato alle Olimpiadi del 1984 mi avevano detto di essersi iniettati sangue prima delle gare, sia loro (prelevato in precedenza) sia di altre persone con lo stesso gruppo sanguigno. All'epoca, la pratica, conosciuta come doping ematico, non era proibita, e dal punto di vista etico era considerata come un allenamento in alta quota. Entrambi i metodi portano a un aumento del numero dei globuli rossi, migliorando il trasporto dell'ossigeno. Io però avevo già trent'anni, e dovevo ricominciare a pensare alla mia carriera accademica. Inoltre avevo iniziato a praticare il ciclismo più che altro per scoprire i miei limiti, quindi l'idea di migliorare artificialmente le prestazioni non aveva nulla a che vedere con le mie ragioni per correre.

Ma immaginiamo che avessi avuto vent'anni e che il ciclismo fosse stato il mio lavoro e la mia passione, senza altre prospettive di carriera. Immaginiamo anche che la mia squadra avesse nel «programma medico» alcune sostanze per migliorare le prestazioni e che mi avrebbe tagliato fuori se non fossi stato abbastanza competitivo. Supponiamo, infine, che fossi stato certo che tutti i miei avversari facessero uso di doping e che i controlli fossero quasi sempre inefficaci.

Questo scenario, in pratica, è quello che molti ciclisti professionisti si sono trovati ad affrontare a partire dai primi anni novanta. I dettagli possono cambiare per altri sport, per esempio il baseball, ma le circostanze generali che portano al doping sono molto simili. Molti giocatori sono convinti che, poiché «tutti» usano sostanze dopanti, per restare competitivi devono adeguarsi. Sul versante del governo del fenomeno, poi, la Major League Baseball, la lega professionistica di baseball nordamericana, non è riuscita a stabilire regole chiare e, soprattutto, non è riuscita a farle rispettare, facendo test sugli atleti per tutta la durata della stagione. Questo fatto, unito alla storica tendenza a «voltarsi dall'altra parte», ha creato il terreno per la diffusione del doping.

Naturalmente nessuno di noi è disposto a credere che tutti gli atleti siano dopati. Eppure i dati fanno pensare che nel ciclismo, nel baseball, nel football americano e nell'atletica leggera quasi tutti i migliori atleti degli ultimi vent'anni abbiano fatto uso di sostanze dopanti per migliorare le prestazioni. Ormai non è più tempo di chiedersi «se», ma «perché». Le ragioni sono tre: sostanze, cocktail e programmi di assunzione migliori; la continua scoperta di nuovi sistemi per eludere i controlli; un cambiamento del livello professionale in molti sport che ha reso più conveniente barare che stare alle regole.

Teoria del gioco

La teoria dei giochi studia il modo in cui i partecipanti a un gioco scelgono la strategia che massimizza il proprio guadagno considerando le mosse degli avversari. I «giochi» per cui è stata creata questa teoria non sono solo quelli d'azzardo o gli sport in cui la tattica ha un ruolo predominante, ma anche ambiti molto più seri, come quello economico, militare o diplomatico. Tutti questi «giochi» hanno in comune che le «mosse» di ciascun giocatore sono analizzate in base alle opzioni disponibili per gli altri giocatori.

L'esempio più classico è il dilemma del prigioniero: tu e il tuo complice siete arrestati per un reato, e poi siete tenuti in isolamento in celle separate. Vi eravate accordati in anticipo di non parlare, ma gli investigatori presentano a ciascuno di voi le seguenti opzioni:

1. Se tu confessi ma l'altro prigioniero non confessa, tu sei libero e lui si prende tre anni di prigione.

2. Se l'altro prigioniero confessa e tu non parli, tu prendi tre anni di prigione e lui è libero.

3. Se entrambi confessate, vi prendete due anni a testa.

4. Se entrambi rimanete zitti, vi prendete un anno a testa.

Secondo questi risultati, la scelta più logica è tradire l'accordo iniziale e confessare. Consideriamo le opzioni dal punto di vista del primo prigioniero: l'unica cosa che non può controllare riguardo l'esito finale è la scelta del secondo prigioniero. Supponiamo che quest'ultimo non confessi. In questo caso, se il primo prigioniero confessa ottiene il payoff (guadagno) «tentazione» (niente prigione); se rimane zitto, rimedia solo un anno di prigione. Supponiamo, invece, che il secondo prigioniero confessi. Ancora una volta, al primo prigioniero conviene confessare (due anni di prigione) anziché rimanere zitto (il payoff «del babbeo», tre anni di prigione). In definitiva, poiché per entrambi i prigionieri le circostanze sono identiche, a entrambi conviene confessare, indipendentemente da quello che decide l'altro.

Queste preferenze non sono solo teoriche. Quando le persone in carne e ossa giocano una sola o un numero finito di volte senza poter comunicare, la confessione è la strategia più frequente. Quando però giocano per un numero indefinito di volte, la strategia più comune è il tit for tat («pan per focaccia»): ciascuno comincia rispettando l'accordo, e non confessa; poi, però, replica le mosse dell'altro giocatore. La cooperazione diventa anche più accentuata nei casi di dilemma del prigioniero con più di due giocatori, a patto però che il gioco sia ripetuto un numero di volte sufficiente a stabilire fiducia reciproca. Le ricerche, tuttavia, indicano che una volta che la confessione prende piede si propaga a tutto il gioco.

Nel ciclismo, nel baseball e in altri sport gli atleti competono seguendo un complesso di regole. Le regole del ciclismo, per esempio, vietano l'uso di sostanze che migliorino le prestazioni. Tuttavia la grande efficacia di queste sostanze, il fatto che molte siano difficili (se non impossibili) da rilevare e i grandi vantaggi che si possono ottenere in termini di successo sono un potente incentivo. Una volta che alcuni tra i migliori ciclisti violano le regole e si dopano, ottenendo un vantaggio, anche i loro avversari sono costretti a fare lo stesso, innescando una cascata poco virtuosa che si propaga a tutti i ciclisti. Ma visto che le regole sono chiare si crea un'omertà che impedisce di comunicare e di cooperare per ritornare al rispetto delle regole, invertendo la tendenza all'uso del doping.

In effetti questa tendenza non si è mai verificata. Molti atleti hanno preso stimolanti e antidolorifici dagli anni quaranta agli anni ottanta, ma i regolamenti antidoping sono stati praticamente inesistenti fino al caso di Toni Simpson, un ciclista britannico morto per un'overdose di anfetamine durante la scalata del Mont Ventoux, al Tour de France del 1967. Anche dopo la morte di Simpson, negli anni settanta e ottanta i controlli sono stati molto sporadici. In mancanza di un senso chiaro delle regole, pochi consideravano il doping antisportivo. Poi, negli anni novanta, è successo qualcosa che ha alterato la matrice del gioco.

L'elisir EPO

Quel «qualcosa» era l'eritropoietina ricombinante ingegnerizzata geneticamente, o r-EPO. L'EPO è un ormone prodotto dal corpo umano: i reni lo rilasciano nel sangue, che lo trasporta a recettori del midollo osseo; quando le molecole di EPO si legano ai recettori, alcuni cambiamenti chimici segnalano al midollo di produrre più globuli rossi. Sia l'insufficienza renale cronica che la chemioterapia possono causare anemia, per cui alla fine degli anni ottanta lo sviluppo dell'r-EPO in sostituzione dell'EPO ha avuto un successo strepitoso tra i malati cronici di anemia. E anche tra gli atleti professionisti.

Assumere r-EPO ha la stessa efficacia di una trasfusione di sangue, con la differenza che l'atleta, invece di dover armeggiare con sacche di sangue e lunghi aghi da inserire in vena, può conservare piccole ampolle con la sostanza in un thermos o nel frigobar di un albergo e iniettarsela sottopelle. L'effetto dell'r-EPO a cui gli atleti sono interessati è misurabile: si tratta del livello di ematocrito (HCT), ossia la percentuale in volume di globuli rossi nel sangue. Più numerosi sono i globuli rossi, più ossigeno è trasportato ai muscoli. Per gli uomini, il valore normale dell'HCT è intorno al 45 per cento, ma un atleta allenato può portare i valori naturali oltre il 50 per cento. L'EPO può spingere questi valori fino al 60 per cento e oltre. E vincitore del Tour de France del 1996, Bjarne Riis, era soprannominato «Mister 60 per cento»; l'anno scorso ha confessato di aver ottenuto valori dell'HCT così elevati proprio grazie all'r-EPO.

Questa sostanza si è diffusa nel ciclismo professionista all'inizio degli anni novanta. Secondo Greg LeMond, tre volte vincitore del Tour de France, è stato nel 1991. Avendo già vinto il Tour nel 1986, 1989 e 1990, LeMond era deciso a battere il record di cinque vittorie, e nella primavera del 1991 sembrava pronto a ottenere il suo quarto trionfo. «Non ero mai stato così in forma, i tempi in allenamento erano i più veloci di tutta la mia carriera e avevo un'ottima squadra», mi ha confessato LeMond. «Ma qualcosa è andato storto, nel Tour del 1991. C'erano ciclisti che negli anni precedenti non riuscivano a starmi dietro e che ora mi staccavano anche sulle salite più facili».

Quell'anno LeMond è arrivato settimo, giurando che l'anno successivo avrebbe vinto senza usare alcuna sostanza. Ma purtroppo non è avvenuto. «Nel 1992 - ha continuato - la nostra prestazione è stata pessima, e non sono nemmeno riuscito a concludere la gara». I ciclisti puliti, infatti, si sfiancavano subito nel tentativo di stare dietro a quelli dopati. LeMond riferisce una storia che gli ha raccontato Philippe Casado, uno dei suoi compagni di squadra dell'epoca. Casado aveva sentito da Laurent Jalabert, del team spagnolo ONCE, che il suo programma personale di doping era stato interamente organizzato dalla squadra. Il programma, ha detto LeMond, comprendeva l'r-EPO, che LeMond stesso si è rifiutato di prendere, non riuscendo a concludere la gara nemmeno quell'anno. Era il 1994, e sarebbe stato il suo ultimo Tour.

Alcuni di quelli che hanno ceduto alle pressioni sono finiti male. Casado, per esempio, ha lasciato la squadra di LeMond per un'altra che aveva un programma di doping. È morto per un arresto cardiaco nel 1995, all'età di trent'anni. Se la sua morte sia stata causata direttamente dal doping, non è dato saperlo. Ma quando l'HCT raggiunge o supera il 60 per cento il sangue diventa molto denso, favorendo la formazione di trombi. Il pericolo aumenta in particolare durante il sonno, quando diminuisce la frequenza del ritmo cardiaco, soprattutto in atleti impegnati in discipline di resistenza: per loro il battito a riposo può scendere intorno ai 30 battiti al minuto. Dopo la morte per arresto cardiaco di due ciclisti olandesi che avevano sperimentato l'r-EPO, alcuni ciclisti dissero di aver dormito con un sensore del ritmo cardiaco collegato a un allarme che scattava quando il parametro scendeva troppo. Se l'allarme suonava, si alzavano e facevano qualche esercizio per riaccelerare il battito.

Intrappolati in una gara senza fine

Come in natura c'è una gara senza fine tra predatori e prede, allo stesso modo nello sport gli atleti che si dopano sono in continua competizione con chi effettua i controlli. Secondo me, gli ispettori sono cinque anni indietro rispetto agli atleti, e lo saranno sempre. Chi trae vantaggi dall'infrangere le regole sarà sempre più creativo rispetto a chi deve farle rispettare, a meno che non si incentivino efficacemente anche questi ultimi. Nel 1997, quando ancora non esisteva il test per l'r-EPO (introdotto nel 2001), l'Unione ciclistica internazionale (UCI), l'organizzazione che coordina le federazioni dei vari paesi, aveva stabilito un limite del 50 per cento per l'HCT. Subito dopo, i ciclisti avevano scoperto che potevano spingersi oltre il 50 per cento e poi diluire il sangue al momento del test con una tecnica permessa e già in uso: iniezioni di soluzione salina, normalmente usate per reidratarsi.

Nel suo libro-rivelazione Massacro alla catena (Bradipolibri, Torino, 2002), Willy Voet, massaggiatore tuttofare del team Festina durante gli anni novanta, spiega come superava i controlli:

«Nel caso i medici dell'UCI fossero arrivati al mattino per controllare l'ematocrito dei corridori, preparavo tutto l'occorrente per superare i test. Salivo nelle camere dei ciclisti con flebo di sodio... La trasfusione durava 20 minuti; la soluzione salina diluiva il sangue, riducendo il livello di ematocrito di tre punti. Quanto bastava. Erano sufficienti due minuti per inserire le flebo, per cui potevamo effettuare le trasfusioni mentre i medici aspettavano nella hall che i ciclisti scendessero».

Come sono cambiate le strategie dopo l'introduzione delle nuove regole? Ho girato la domanda a Joe Papp, professionista di 32 anni interdetto dalle gare per due anni dopo essere risultato positivo al testosterone sintetico. Papp mi ha spiegato come una scelta morale diventi in realtà una scelta di tipo economico: «Quando entri in una squadra che ha già un programma di doping, ti viene posta una semplice scelta: se prendi quelle sostanze, rimani competitivo; se non le prendi, ci sono buone probabilità che non avrai alcun futuro nel ciclismo».

Quando Papp ha confessato è stato punito con un'interdizione di due anni, e le conseguenze sociali sono state anche peggiori. «Il ciclismo mi ha buttato fuori», si è lamentato. «In squadra si diventa come fratelli, ma in una squadra di atleti dopati c'è un legame in più dato dal segreto condiviso e dall'omertà che questo comporta. Se ti beccano, devi tenere la bocca chiusa. Nel momento in cui ho confessato sono stato rinnegato dai miei amici perché, dal loro punto di vista, li stavo mettendo in pericolo. Uno mi ha addirittura chiamato dicendo che mi avrebbe ucciso se avessi rivelato che si dopava».

Papp, però, non era un ciclista particolarmente competitivo: quindi ho pensato che la matrice del gioco, con le relative implicazioni per la carriera, doveva essere diversa per i ciclisti di alto livello. Ma mi sbagliavo. Ecco che cosa racconta Frankie Andreu, gregario di Lance Armstrong: «Per anni non ho avuto problemi nel fare il mio lavoro di supporto. Poi, intorno al 1996, la velocità delle gare è aumentata improvvisamente. Non era dovuto solo agli allenamenti, era successo qualcosa». Andreu ha resistito il più a lungo possibile, ma nel 1999 non era più in grado di svolgere il suo lavoro: «Mi ero reso conto che la maggior parte dei ciclisti di alto livello usava sostanze dopanti e che anch'io dovevo darmi da fare». Ha iniziato a iniettarsi r-EPO due tre volte alla settimana. «Non è come la Red Bull, che ti dà subito energia, però ti permette di restare con il gruppo un po' più a lungo, di andare magari a 50 chilometri all'ora invece che a 48».

Sostanze che fanno la differenza

In una gara sfiancante di tre settimane come il Tour, l'r-EPO è vantaggiosa perché aumenta i valori di HCT e li mantiene alti a lungo. Jonathan Vaughters, ex compagno di squadra di Armstrong, mi ha fornito alcune cifre: «Il grande vantaggio del doping ematico è che mantiene l'HCT al 44 per cento per tre settimane». Se un atleta «pulito» inizia la gara con un HCT del 44 per cento, spiega Vaughters, probabilmente finirà, dopo tre settimane, al 40 per cento, a causa della naturale diluizione del sangue e della perdita di globuli rossi. «Il solo fatto di stabilizzare l'HCT al 44 per cento ti dà un vantaggio del dieci per cento».

Gli studi sugli effetti del doping sono pochi, e in genere condotti su non atleti o su atleti dilettanti. Ma confermano le parole di Vaughters. I medici sportivi sono concordi nel ritenere che l'r-EPO migliora le prestazioni di almeno il 5-10 per cento. Quando poi è assunta con altre sostanze, le prestazioni possono aumentare di un ulteriore 5-10 per cento. In eventi sportivi in cui tutto si gioca su differenze di meno dell'1 per cento, è un vantaggio enorme.

Michele Ferrari, medico sportivo italiano esperto di doping (personaggio controverso, vista la sua vicinanza con professionisti positivi ai controlli o comunque sospetti), lo spiega così: «Se il volume di globuli rossi aumenta del 10 per cento, la prestazione [il guadagno netto del ciclista in termini di produzione di energia cinetica utile] migliora del 5 per cento circa. Questo significa guadagnare circa 1,5 secondi al chilometro per un ciclista che viaggia a 50 chilometri all'ora in una tappa a cronometro, o circa 8 secondi al chilometro per un ciclista che scala a 10 chilometri all'ora una pendenza del 10 per cento».

In un Tour de France questi numeri implicano che se un ciclista aumenta l'HCT del 10 per cento guadagnerà 75 secondi in una cronometro di 50 chilometri, dove in genere si vince sul filo dei secondi. Su una salita di 10 chilometri con pendenza del 10 per cento, come ce ne sono tante sulle Alpi o sui Pirenei, il vantaggio sarebbe di 80 secondi. Se un ciclista di punta inizia a usare sostanze dopanti, nessun avversario può permettersi di lasciargli questo margine. È qui che la matrice del gioco inizia a tendere verso il tradimento.

L'equilibrio di Nash

Nella teoria dei giochi, una situazione in cui nessun giocatore ha qualcosa da guadagnare cambiando unilateralmente la propria strategia è definita equilibrio di Nash, concetto introdotto dal matematico John Nash. Per mettere fine al doping, il gioco si dovrebbe ristrutturare in modo che la competizione pulita sia in una situazione di equilibrio di Nash. Nella matrice del gioco, gli organi di controllo dovrebbero cambiare i valori di payoff. Quando gli altri giocatori rispettano le regole, il payoff per fare altrettanto deve essere maggiore rispetto al payoff che si ottiene barando. E anche quando gli altri giocatori barano il payoff che si ottiene rispettando le regole deve essere maggiore rispetto al payoff che si ottiene barando. I giocatori, insomma, non devono vedere come uno svantaggio il fatto di seguire le regole.

Nel dilemma del prigioniero, abbassare il payoff della confessione e aumentare il payoff del silenzio nel caso l'altro prigioniero confessi aumenta la cooperazione. Ma il modo più efficace per aumentare la cooperazione tra i giocatori è farli comunicare prima di iniziare il gioco. Nello sport, questo significherebbe rompere l'omertà. Tutti devono ammettere che il problema esiste. Successivamente vanno eseguiti i controlli, e i risultati vanno comunicati regolarmente e in maniera trasparente a tutti, finché danno esito negativo. In questo modo si dimostrerebbe che il payoff del rispetto delle regole è maggiore di quello relativo al doping, indipendentemente da quello che fanno gli altri.

Ecco i miei suggerimenti perché il ciclismo e gli altri sport raggiungano un equilibrio di Nash in cui nessuno è incentivato a infrangere le regole:

- Immunità a tutti per il doping assunto in passato (prima del 2008). L'intero sistema è corrotto, e quasi tutti hanno fatto uso di doping, non serve a niente togliere il titolo al vincitore quando è quasi sicuro che anche gli altri erano dopati. L'immunità permetterà agli atleti ormai ritirati dalle gare di contribuire a migliorare il sistema antidoping.

- Aumentare il numero degli atleti sottoposti a test, in gara e fuori gara, soprattutto immediatamente prima e dopo le gare, per impedire l'uso di contromisure e trucchi. I test dovrebbero essere svolti da agenzie indipendenti non affiliate con organi di controllo ufficiali, atleti, sponsor o squadre. Le squadre dovrebbero inoltre rivolgersi ad agenzie di controllo indipendenti, con un test delle prestazioni prima dell'inizio della stagione per creare un profilo di riferimento. Gli sponsor dovrebbero fornire un sostegno economico aggiuntivo per far sì che i test siano rigorosi.

- Stabilire una ricompensa per gli scienziati che sviluppano test per nuove sostanze, in modo che l'incentivo per chi controlla sia uguale o superiore a quello di chi è sottoposto ai controlli.

- Aumentare considerevolmente le sanzioni: un test positivo e si è fuori per sempre. Per proteggere gli atleti dal rischio di falsi positivi o da ispettori poco competenti, i tribunali sportivi devono essere equi e affidabili. Ma, una volta presa una decisione, deve essere sostanziale e definitiva.

- Squalificare tutti i membri di una squadra se uno solo è positivo. Obbligare l'atleta a restituire tutto il denaro ricevuto come stipendio o dagli sponsor. Sfruttando la psicologia di gruppo, la minaccia di questa sanzione pressa tutti gli atleti, incentivandoli a rispettare i regolamenti.

Potrebbe sembrare un'utopia, ma può funzionare. Vaughters, oggi direttore del team Slipstream/Chipotle, ha già avviato un programma periodico di controlli interni. «Questi ragazzi sono atleti, non criminali», afferma. «Se si convincono che gli altri stanno smettendo, e lo vedono nei tempi dei corridori più forti, smetteranno anche loro, e sarà un sollievo per tutti».

La speranza non muore mai. Ma credo che questi cambiamenti riporterebbero la psicologia del gioco dal tradimento alla cooperazione. Se questo avvenisse, lo sport ritornerebbe a quando era l'eccellenza delle prestazioni, alimentata unicamente dal desiderio di vittoria, a essere premiata e celebrata.

Michael Shermer

(«Le Scienze» n. 478/08)

1 commento:

  1. penso che certe cose siano comprensibili nel mondo proffessionistico ma non in quello amatoriale dove credo esisti anche la e nessuno fa niente è dalla radice che si risolvono i problemi

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