Quando le sostanze dannose messe al bando negli sport possono rivelarsi preziosi strumenti per lo sviluppo
di nuove terapie e cure per la vita di tutti i giorni dei cittadini

UN AFFARE ITALIANO

Il problema del doping all’interno del mondo del ciclismo non è una novità. Sin dai tempi di Coppi e Bartali questi cavalieri moderni hanno fatto ricorso ad una serie lunghissima di sostanze alteranti, come dimostrano diversi studi storici e medici (Hoberman, Mortal Engines, New York, 1992) e la  bassa percentuale di vincitori del tour dal 1960 esenti da indagini antidoping. 

Secondo il Comitato Internazionale Olimpico si considera doping l’uso o la somministrazione di sostanze estranee all’organismo, o fisiologiche ma assunte in quantità anormale da soggetti in buona salute per ottenere un incremento artificiale della prova atletica. È una categoria vastissima: vi rientrano sostanze stimolanti come le anfetamine e la caffeina, che aumentano la resistenza fisica allo sforzo ma danno assuefazione (famoso il caso di Vandervelde, ciclista olandese in auge negli anni ’80 dipendente dalle anfetamine che, dopo aver scollinato in cima allo Stelvio, in una tappa epica del Giro, è sfuggito ai controlli grazie al provvido intervento del suo direttore sportivo); narcotici, poco utilizzati, agenti anabolizzanti assunti per migliorare le prestazioni e sopravvivere ad allenamenti sfiancanti; diuretici e agenti mascheranti, valido antidoto alla severità dei controlli, cannabis e betabloccanti; plasma expander, che alterano il ph del sangue, e prodotti che modificano l’esame delle urine (doping genetico); infine pratiche poco ortodosse: trasfusioni ed usi di eritropoietina, che stimola la produzione di globuli rossi durante prove fisiche aerobiche (doping ematico). Tutti stratagemmi escogitati alla fine degli anni ’80 e diffusamente praticati in centri all’avanguardia, come quello di Ferrara del professor Conconi.


Niente, dunque, proprio niente di nuovo sul fronte del ciclismo professionista, dove il doping è vizio noto. Tanto che Paolo Villaggio, sempre durante i ruggenti anni ’80, nel terzo episodio della saga epica più famosa d’Italia, “Fantozzi contro tutti”, inserisce una gara stranamente vinta dal nostrano antieroe dal fisico troppo poco atletico grazie all’assunzione della “bomba (aspirina, anfetamina, cocaina, caffeina, bombe a mano e tricketrack).

Che fare per restituire credibilità ad uno sport che sembra contaminato fino alle fondamenta e impotente di fronte al progresso biotecnologico degli specialisti del doping? Intanto bisogna rassegnarsi al fatto che uno sport professionistico pulito al cento per cento non esisterà mai. Anzi, diciamo che è una vera e propria contraddizione in termini perché, laddove dal risultato di una competizione dipende il futuro sportivo ed economico di un atleta, gli incentivi a barare sono sempre alti.
Per questo più che seguirne le vicende conviene considerare la bicicletta come strumento alternativo ai veicoli a gasolio o a benzina. E magari iscriversi alla competizione “I love Roma” organizzata dai tipi delle alleycat della città eterna per il prossimo 9 novembre.


di riccardo melito


http://www.ccsnews.it/dettaglio.asp?id=6131&titolo=

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