Quando le sostanze dannose messe al bando negli sport possono rivelarsi preziosi strumenti per lo sviluppo
di nuove terapie e cure per la vita di tutti i giorni dei cittadini

ANTIDOPING: COME FUNZIONA?

ESCLUSIVO. La lotta al “doping” è un tema di grande attualità; ma oltre ad esaminarne gli aspetti medici, scientifici ed etici è doveroso studiarne a fondo la disciplina giuridica, sia internazionale che nazionale, sportiva e penale. Ecco quali sono gli organi competenti, le procedure attivabili e le sanzioni irrogabili nei casi in cui un atleta (tennista e non), venga colto quale assuntore di sostanze dopanti.
Cesare Boccio

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PARTE 1
Si discute spesso, di argomenti legati al doping. Ma raramente il tema viene affrontato nei suoi aspetti giuridici. Con questo monumentale lavoro del nostro Cesare Boccio (diviso in tre parti) ci addentriamo in questo delicato argomento. Un documento utilissimo per apprendere la materia anche per chi non mastica quotidianamente il linguaggio giuridico. (in fondo al pezzo, la lunga intervista al dottor Carlo Giammattei sull'argomento doping)

I giuristi e gli appassionati che hanno l'ardire di accostarsi per la prima volta alla normativa volta al contrasto delle pratiche “dopanti”, non possono fare a meno di notare in quale autentico ginepraio giuridico si siano imbattuti. Un insieme di normative statali, convenzioni internazionali, regolamenti sportivi internazionali e “domestici”, oltre che disposizioni di settore (ossia rivolte alle singole discipline sportive), si intersecano costituendo un complesso all'interno del quale è difficile districarsi. E' pertanto opportuno fissare un metodo di analisi che ci permetta di chiarire tutti i dubbi in modo terminologicamente comprensibile anche per i “non addetti ai lavori”. In primo luogo si comincerà con lo studio delle regole sportive, con un occhio di riguardo per il tennis, per poi proseguire con la disamina delle norme penali italiane e un breve approccio comparatistico anche alle leggi antidoping di alcuni paesi stranieri. Si tenga presente che, vista l'ampiezza dell'argomento e per ovvie ragioni di scorrevolezza del discorso, sarà necessario soffermarsi principalmente sugli aspetti più importanti di carattere strettamente normativo, lasciando l'approfondimento medico a specialisti del settore.

LA NORMATIVA SPORTIVA.
L'ISTITUZIONE DELLA WADA ED IL “WORLD ANTI-DOPING CODE”.

L'intento del CIO (Comitato Olimpico Internazionale) di imprimere una svolta ancor più efficace nella lotta al doping si concretizzò nel 1999 con l'istituzione della WADA (World Anti-Doping Agency). In quel periodo era ancora forte e doloroso l'eco delle polemiche esplose sugli scandali verificatisi soprattutto nel ciclismo; basti pensare al Tour de France 1998 vinto da Pantani e caratterizzato da numerosi ritiri a dir poco sospetti e dall'intervento costante delle Forze di Polizia francesi. La WADA perciò nacque con la “mission” di esercitare un potere di direttiva nei confronti dei comitati olimpici nazionali e delle federazioni internazionali, volto ad uniformare le rispettive normative interne antidoping attraverso la periodica emanazione di un Codice, denominato appunto “World Anti-Doping Code”, la cui prima versione entrò in vigore nel 2003 e la cui ultima edizione è divenuta efficace a decorrere dal 1 gennaio 2009 (il testo è reperibile sul sito WADA). In sostanza, il contenuto della codificazione in questione è suddiviso nelle seguenti 4 parti:

1) Controllo antidoping,

2) Educazione e ricerca,

3) Ruoli e responsabilità,

4) Norme procedurali in materia di approvazione e modificazione del codice, e di conformazione al medesimo.

E' appena superfluo sottolineare come, ai fini del discorso che interessa gli appassionati di tennis, assuma particolare rilievo la prima parte del Codice, dedicata alle procedure che presiedono al prelievo dei campioni, dell'accertamento dell'illecito, nonché del successivo giudizio (primo grado e appello) oltre che, chiaramente, alla tipologia di sanzioni che possono essere applicate ad un atleta. Va detto inoltre che la gran parte delle regole in esame sono, per così dire, di principio, ossia norme che necessitano di attuazione da parte, da un lato, dei Comitati Olimpici Nazionali e dall'altro delle Federazioni internazionali delle singole discipline sportive. Ad esempio, per quanto concerne il tennis (come verrà esaminato meglio in seguito), il Codice WADA costituisce fonte normativa di ispirazione dell' “ITF Tennis Antidoping Programme”, oltre che per noi italiani del “Documento tecnico attuativo del Programma Mondiale Anti-Doping WADA”, approvato dal CONI, e destinato all'applicazione generalizzata di tutti gli sport agonistici ivi compreso il tennis. Non solo, è doveroso ricordare che l'operato del CIO e della WADA ha trovato espresso riconoscimento ed incentivo anche a livello della “Convenzione Internazionale contro il doping nello sport” adottata a Parigi durante la XXXIII Conferenza generale UNESCO il 19 ottobre 2005, e successivamente ratificata dal Parlamento italiano con la legge n. 230 del 26/11/2007.


LE VIOLAZIONI (Art.2)

Tornando al Codice WADA, si esaminano nel dettaglio le violazioni in esso contemplate:

- la principale violazione è costituita dalla presenza di una sostanza vietata, dei suoi metaboliti o “marker”(marcatori) nel campione di un atleta. In particolare, il codice specifica che si considera consumato l'illecito del divieto di assunzione di sostanze dopanti se, dei due campioni prelevati (non si precisa se campione ematico o di urina anche se nelle maggior parte dei casi si verifica la seconda ipotesi) e denominati convenzionalmente A e B, la traccia risulti presente nel solo primo campione quando l'atleta ha rinunciato all'analisi del secondo, e qualora la prima analisi sia confermata anche da quella del campione B. Inoltre, per quanto concerne quello che nel linguaggio giuridico viene definito “l'elemento soggettivo” dell'infrazione (in termini più semplici, la consapevolezza e volontà della condotta illecita), il codice non richiede la prova dell'intenzionalità o dell'errore ascrivibile all'atleta, bensì, la semplice condizione accennata in precedenza, ossia l'oggettivo riscontro analitico. Ciò significa che grava sull'atleta stesso l'onere di provare che l'assunzione di sostanze proibite sia avvenuta contro la sua volontà oppure senza la sua consapevolezza. Invece, la fattispecie del “tentativo di uso”, ossia l'ipotesi nella quale vengono compiuti atti prodromici all'uso nel corso di una competizione sportiva (si pensi al caso di Ivan Basso il quale nel 2007, nell'ambito delle indagini rientranti nella cosiddetta Operacion Puerto, ammise espressamente il solo tentativo alla Procura antidoping per essersi sottoposto alla autoemotrasfusione in vista del Tour de France) si caratterizza per i più rigidi obblighi probatori da parte degli organi inquirenti, i quali devono trarre elementi di valutazione da documentazione relativa alla persona dell'atleta, soprattutto di carattere medico-scientifico e, contrariamente all'ipotesi dell'uso effettivo, devono fornire prova dell'intenzionalità.

- Infrazione del rifiuto di sottoporsi al prelievo di campione.

-Inosservanza dell'obbligo di “reperibilità” dell'atleta nei periodi non dedicati alle competizioni sportive (obbligo molto criticato nel settore tennistico in particolare da Rafael Nadal in quanto ritenuto eccessivamente limitativo della propria sfera di libertà personale). Si precisa ulteriormente, in merito all'ultima fattispecie, che si considera integrata una violazione del codice anti-doping nell'ipotesi in cui l'atleta, nel corso di un periodo di osservazione di 18 mesi, non fornisca informazioni in merito alla sua collocazione logistica e/o non si sottoponga ai test per un totale di 3 inosservanze.

- Manomissione o il tentativo di manomissione del controllo. Una violazione costituita da tutti quei casi in cui l'atleta pone in essere atti fraudolenti volti ad alterare gli esiti delle analisi, oppure ad ostacolare la sua identificazione.

- Possesso di sostanze e/o metodi dopanti proibiti. L'illecito viene commesso dall'atleta che viene trovato in possesso di tali sostanze al di fuori dei casi di autorizzazione per ragioni terapeutiche, sia nel corso delle competizioni che al di fuori.

- Possesso di sostanze e/o metodi dopanti da parte del personale di supporto dell'atleta. Stesse considerazioni di cui al punto precedente.

- Traffico o tentativo di traffico di sostanze dopanti e/o metodi proibiti.

- Somministrazione o tentativo di somministrazione di sostanze proibite ad un atleta. Punisce sia l'atto di somministrare sostanze e/o metodi proibiti, sia la tenuta di una condotta finalisticamente orientata ad indurre un atleta all'assunzione di sostanze dopanti.


LE SOSTANZE PROIBITE (Art. 4)

Il fulcro di tutta la normativa “antidoping” è ovviamente rappresentata dalla lista delle sostanze e dei metodi proibiti, aggiornata dalla WADA con cadenza annuale (l'ultima lista dell'anno 2010 è reperibile a QUESTO INDIRZZO). Un'elenco che, in base a quanto enunciato dal Codice, entra in vigore automaticamente presso tutti gli ordinamenti sportivi decorsi tre mesi dalla data della sua pubblicazione; perciò si pone come norma immediatamente precettiva per tutti gli organi competenti sia a livello nazionale che internazionale.

Le sostanze vengono raggruppate nelle seguenti macro-categorie:

- Agenti anabolizzanti, a loro volta suddivisi in:

- steroidi anabolizzanti androgeni;

- altri agenti anabolizzanti previsti dalla lista.

- Ormoni peptidici, fattori della crescita, e sostanze collegate; una categoria di sostanze nella quale rientrano, tra le altre, sia l'EPO (eritropoietina) che la cosiddetta EPO di terza generazione, la CERA (Continuous erythropoietin receptor activator) che stimola il recettore renale alla produzione continua di eritropoietina.

- I Beta-2 agonisti, che esercitano la loro efficacia sulla muscolatura bronchiale facilitando la respirazione. Sono proibiti ad eccezione del salbutamolo entro il limite dei 1600 microgrammi entro le 24 ore ed il salmeterolo inalato, ovviamente previa esenzione per fini terapeutici (la cosiddetta Therapeutic Use Exemption, rilasciata dal Comitato Olimpico Nazionale o dalla Federazione sportiva internazionale a seconda della tipologia di competizione sportiva).

- Antagonisti e modulatori degli ormoni.

- Diuretici e altri agenti “mascheranti”.

Per quanto concerne invece i metodi proibiti, la lista ne elenca 3 categorie:

- Potenziamento del trasporto di ossigeno, che comprende il cosiddetto doping ematico.

- Manipolazione chimica e fisica, del campione prelevato all'atleta.

- Doping genetico; riferito, alternativamente, all'atto di trasferimento di cellule o elementi genetici (DNA o RNA) e all'utilizzo di agenti farmacologici e biologici idonei a modulare l'espressione genica.

Inoltre, la WADA aggiunge altri gruppi di sostanze vietate, ma stavolta relative esclusivamente alle competizioni (ossia al di fuori del periodo di “reperibilità”):

- stimolanti;

- narcotici;

- cannabinoidi;

- glucocorticosteroidi.


L'ONERE DELLA PROVA (Art. 3)

In precedenza si è già accennato all'onere probatorio che l'organo di “accusa” deve assolvere al fine di dimostrare l'effettiva commissione della violazione del codice antidoping. In altri termini si tratta di verificare quali livelli di certezza scientifica del fatto devono essere documentati all'esito del controllo. Su questo punto, il Codice utilizza una locuzione emblematica: “This standard of proof in all cases is greater than a mere balance of probability but less than proof beyond a reasonable doubt” che tradotta in italiano (documento attuativo del CONI) significa che “Il grado di prova richiesto è comunque superiore alla semplice valutazione delle probabilità ma inferiore all'esclusione di ogni ragionevole dubbio”. Sul piano giuridico è interessante notare come non venga affatto richiesta l'assoluta certezza, bensì un elevato grado di probabilità scientifica; un elemento che si differenzia notevolmente dall'onere probatorio nei processi penali, sia dei paesi anglosassoni (USA, Regno Unito, i paesi di common law) che di taluni di ispirazione e tradizione romanistica (come l'Italia) i quali consentono una pronuncia di condanna solo qualora la colpevolezza emerga “al di là di ogni ragionevole dubbio” (Art. 533 codice di procedura penale italiano). Inoltre, viene precisato che gli organi antidoping possono accertare l'infrazione attraverso qualsiasi mezzo affidabile (es. laboratori accreditati WADA), ivi compresa l'espressa ammissione di colpevolezza da parte dell'atleta. Una volta fornita la prova nei termini esposti, spetta all'atleta medesimo (con l'ovvia esclusione dei casi di confessione) dimostrare che l'esito positivo delle analisi sia dipeso da una violazione procedurale commessa dall'organo di controllo, oppure che l'assunzione della sostanza proibita non sia dipeso dalla sua volontà (ad es: costrizione da parte di terzi, o assoluta mancanza di consapevolezza). In merito alle ipotetiche violazioni procedurali, il Codice aggiunge che possono invalidare l'accertamento nella sola ipotesi in cui, l'esperimento della procedura corretta avrebbe condotto ad un risultato negativo. Pertanto viene esclusa ogni rilevanza ai casi di violazioni meramente formali.


Intervista a Carlo Giammattei, realizzata da Claudio Gilardelli


PARTE 2


I furbi sono sempre un passo avanti?

Si sta facendo tutto il possibile per contrastare il doping? Oppure i disonesti trovano modi sempre nuovi per avvantaggiarsi in modo illecito e per eludere i controlli? E quali sono i limiti degli attuali test? Ecco cosa ne pensa il dott. Giammattei nel seguito dell’intervista che abbiamo realizzato.
Claudio Gilardelli

Rintracciabilità delle sostanze proibite e “nuove frontiere” del doping. Sono questi gli argomenti che toccheremo nella seconda parte del nostro viaggio nel mondo del doping.

Quali sono le sostanze o le pratiche facilmente rintracciabili ai test e quali no?

Moltissime sostanze vengono ormai rintracciate con facilità con i più moderni esami antidoping. Ad esempio, per le varie forme di eritropoietina o per gli anabolizzanti esistono ormai test molto efficaci. Non esistono però al momento controlli antidoping in grado dl svelare con certezza l’uso di insulina, IGF, GH e in generale di tutti quegli ormoni o molecole che sono presenti naturalmente all’interno del nostro organismo e sono di fatto irreperibili con test diretti. A questa difficoltà va aggiunta anche la loro breve emivita (parametro che indica il tempo richiesto per ridurre del 50% la quantità di un farmaco nel sangue, ndr), che è solo di poche ore. Alcune di queste sostanze, però, come ad esempio i fattori di crescita, sono molto difficili da reperire in commercio. Pure l’autoemotrasfusione e le pratiche emodiluenti sono difficilmente rintracciabili agli attuali test.


Recentemente però non è stato “pizzicato” positivo al GH un atleta con un nuovo test?

Sì è vero, si tratta di un rugbista, il 31enne britannico Terry Newton. È stato trovato positivo a un test fuori competizione lo scorso 24 novembre. Ha ammesso l’uso di GH e ha rinunciato alle controanalisi, accettando la squalifica di due anni. Il nuovo metodo che ha permesso di inchiodare Newton è stato elaborato dal medico tedesco Christian Strasburger, ma deve ancora essere perfezionato prima di diventare un controllo di routine. Certo che però rappresenta comunque un forte messaggio sia per gli atleti che pensano valga la pena di rischiare e si apprestano ad usare il GH sia per quegli altri che l’hanno usato fino ad oggi, credendo di restare impuniti. Infatti, una volta messo a punto, il nuovo test potrà anche essere usato in maniera retroattiva sulle provette prelevate in passato e potrebbe portare alla scoperta di altri casi.
Ad esempio, i campioni prelevati durante i Giochi Olimpici Invernali di Vancouver saranno conservate per otto anni e pertanto non è da escludere l’utilizzo del nuovo test per ulteriori analisi su queste provette.

Quindi a breve avremo un test valido almeno per il GH?

Vi sono diverse equipe al lavoro – non solo quella del dott. Strasburger – con l’intento di trovare un metodo analitico valido per identificare il GH. Le complicazioni sono parecchie e sono, in parte, quelle che già citavo. Il GH utilizzato (esogeno) è una molecola umana o ricombinante umana (frutto dell’ingegneria genetica, ndr), cioè praticamente identica al GH prodotto dal nostro organismo (endogeno). Il fatto che il GH sia normalmente prodotto dal nostro corpo rende necessario un metodo che sappia distinguere il GH endogeno da quello esogeno. Inoltre la sua breve emivita renderebbe il GH difficile da ritrovare anche solo a poche ore dall’assunzione. Il GH, poi, non viene espulso tramite le urine, per cui si potrebbe rivelarne la presenza solo tramite controlli sul sangue. Ma il ciclo produttivo di GH endogeno “a cicli”, con picchi di secrezione durante l’esercizio fisico, non rende possibile stabilire un valore costante della molecola nel sangue, e quindi eventuali sbalzi nel valori possono essere ascritti tanto a doping quanto ad un picco di produzione da parte dell’organismo.

Il lavoro degli scienziati si sta concentrando sulla possibilità di determinare alcuni marker del sangue, indicatori di un assunzione di GH. Si tratterebbe di un test indiretto che permette di vedere le alterazioni di alcune molecole presenti nel corpo operate da GH esogeno, se presente, e non da quello endogeno.
Nonostante i buoni risultati, non si è ancora giunti alla stesura di un metodo riconosciuto a prova di errore e per ora non sono ancora disponibili test che possano essere usati con regolarità nei controlli antidoping.

In Spagna nel 2009 è stato approvato un decreto che vieta tassativamente che siano realizzati controlli antidoping fra le 23 della notte e le 8 del mattino del giorno successivo. La motivazione è di garantire il diritto all'intimità e alla vita familiare dello sportivo. Questo però è in contrasto con le norme della Wada che obbliga gli atleti a restare a disposizione per eventuali controlli 24 ore al giorno. È chiaro però che, almeno per queste sostanze irrintracciabili, questo decreto non toglie nulla alla situazione attuale. Concorda?

Sì, ad esempio infusioni endovenose anche di semplici zuccheri o di aminoacidi (comunque vietate dai nuovi regolamenti Wada, come già ho avuto modo di dire) o di qualunque altra sostanza che non sia reperibile con i test in uso possono essere fatte velocemente e facilmente, senza lasciare traccia. Anche nell’arco della giornata: basta chiudersi nella propria camera d’albergo e il gioco è fatto. L’eventualità che vengano a bussare alla tua porta proprio mentre ti stai dopando è molto bassa e anche nel caso succedesse puoi velocemente toglierti la flebo dal braccio prima di aprire. Quindi per questi imbroglioni il rischio vale la candela. Queste tecniche dopanti possono anche essere praticate nel lasso di tempo che va da mezzanotte alle 8 del mattino, ma visto che la possibilità di essere scoperti è bassa anche durante le altre ore della giornata, l’unico vantaggio di farsi una flebo durante la notte è solo psicologico: non si ha assilli o ansie di venire pizzicati con l’ago nel braccio e si può agire con tutta tranquillità.

Quali possono essere invece le sostanze rilevabili con test in uso ma che se assunte nel lasso di tempo che va dalle 23 di notte alle 8 del mattino non sono più rintracciabili?

Non mi risulta che fra le sostanze rintracciabili ai controlli antidoping ve ne siano alcune che non lasciano tracce della loro presenza nell’organismo umano dopo solo 8 ore.

È possibile ipotizzare, secondo lei, uno scenario in cui gli atleti che vogliono ricorrere al doping si sottopongano, subito dopo un test durante un torneo, a “cicli” di trattamento durante i quali rimarrebbero fuori dalle competizioni per 3-4 settimane, per poi tornare ancora più forti? Se sì, come è possibile scoprire chi si comporta in tal modo?

Pura fantascienza!! Abbiamo già detto che sono sottoposti a controlli a sorpresa 24 ore su 24 e infatti in Spagna hanno fatto una legge per non essere controllati almeno la notte.

Quali sono le possibilità che un atleta utilizzi una sostanza non ancora inserita nell’aggiornamento delle sostanza proibite?

Effettivamente la storia ci insegna che il pericolo è proprio che gli atleti professionisti di alto livello, invece dei farmaci noti che sono ben reperibili con i test, si dopino con farmaci di nuova sintesi o ancora nelle fasi di studio clinico, quindi non ancora pronti per la commercializzazione e di conseguenza non noti alle agenzie antidoping, anche avvalendosi della complicità di alcuni laboratori che testano e procurano loro i prodotti dopanti. In questo senso, è stato emblematico il caso del CERA, l’Epo sintetico di terza generazione usato da alcun ciclisti per moltiplicare il numero dei globuli rossi nel sangue e non ancora rilevabile dai test in uso in quel periodo. Il CERA era all’epoca in fase di studio per la cura di pazienti affetti da gravi forme di anemia e con insufficienza renale, come sostituto dell’ormone naturale che non è prodotto dai reni e dal fegato di questi individui. Un altro scandalo clamoroso fu quello della Balco, il laboratorio di S. Francisco che forniva prodotti dopanti agli atleti statunitensi (ma non solo) di spicco. La Balco somministrava ai propri “clienti” il Narboletone, uno steroide anabolizzante utilizzato solamente in alcuni studi di laboratorio negli anni settanta e che non era mai stato commercializzato come prodotto farmaceutico prescrivibile ma era disponibile solo sotto forma di un preparato grezzo venduto esclusivamente ai laboratori specializzati. Inoltre erano riusciti a sintetizzare in laboratorio un anabolizzante sintetico nuovo, il tetraidrogestrinone o THG, unendo due molecole di anabolizzanti, il gestrinone e il trenbolone, in modo tale da crearne una sola del tutto irrintracciabile con i test in uso. La Balco aveva anche modificato in laboratorio la molecola di testosterone per aumentarne la penetrazione in circolo attraverso la pelle mediante una lozione da cospargere su tutto il corpo. Anche in questo caso, nessun tennista è stato coinvolto.

Casi più recenti ce ne sono stati?

Solo sospetti per ora. Ad esempio nel corso delle ultime Olimpiadi di Pechino qualcuno ha parlato di numerosi atleti sfuggiti ai controlli proprio perché i farmaci che hanno assunto per migliorare le proprie prestazioni non sono stati identificati dai controlli standard essendo sostanze non testate sugli esseri umani, ma note per il loro effetto positivo sulle prestazioni degli animali. Ma come dicevo, sono solo ipotesi, nessuna certezza. Si ricorda poi che questi campioni vengono conservati per anni e possono essere riesaminati quando viene messo a punto un nuovo metodo.

Immagino sia ancora più pericoloso usare sostanze ancora in fase di studio o mai sottoposte a studi clinici approfonditi.

Certamente. I farmaci nuovi possono essere somministrati agli esseri umani solo una volta superati gli studi clinici. Non possiamo sapere quali possono essere gli effetti dell’uso di queste molecole nel lungo periodo e pertanto l’atleta rischia moltissimo.

Cos’è il doping genetico?

Per doping genetico si intende il trasferimento di cellule o di elementi genetici all’interno di un individuo allo scopo di modulare l’attività di geni endogeni per migliorarne le prestazioni atletiche.
Il procedimento è quello che è anche alla base della “terapia genica”: si usa un virus (generalmente un adenovirus) da cui sono stati eliminati dal DNA i geni responsabili dell’attività patogena. Il frammento di DNA rimanente, potenzialmente“innocuo”, viene legato con un frammento di DNA dell’atleta che codifichi la proteina di interesse. Il virus così modificato è poi utilizzato per “infettare” le cellule dell’atleta: al loro interno il nuovo DNA virale può, grazie a complessi processi biologici, inserirsi nel DNA della cellula ospite e cominciare a produrre la proteina di interesse, praticamente identica a quella di origine endogena e quindi non identificabile dalle tecniche in uso.
Oltre al trasferimento attraverso vettori virali, ci sono altri metodi di modificazione genetica conosciuti: impianti di cellule staminali, blocco o stimolazione dell’attività genica con anticorpi, recettori solubili, peptidi o piccole molecole. Ovviamente, tale approccio può essere applicato o immaginato solo nell’ambito di proteine che abbiano un significato per il miglioramento delle prestazioni, quali ad esempio l’Epo, il GH, l’IGF-1, la somatostatina, la miostatina (regolatore negativo della crescita muscolare).

È una pratica in uso?

Si sospetta che alcuni atleti abbiano già fatto uso di questo approccio per fini dopanti. A mio avviso però è molto improbabile, visto che sono metodiche in fase di studio su animali o nelle primissime fasi di sperimentazione sull’uomo.
Ad esempio studi preclinici sui topi hanno dimostrato ormai da qualche anno che l’aumento dell’espressione di IGF-1 nel muscolo scheletrico mediato da vettori virali favorisce un incremento della massa e della forza muscolare, così come l’inibizione della miostatina, determina crescita muscolare e diminuzione dei depositi di grasso, come dimostrato in una particolare razza di tori belga “Blue Bull”, che possiede una naturale inibizione della miostatina.
Attualmente poi sono in fase di studio clinico strategie di terapia genica con Epo per il trattamento di gravi anemie, che prevedono l’inserimento in sede muscolare del gene che codifica per l’Epo, con conseguente produzione della proteina qualora si verifichi un anormale diminuzione dell'ossigeno contenuto nel sangue.

Però si diceva prima che sono proprio i farmaci in queste fasi di studio che sono preferiti per doparsi senza essere scoperti. Perché quindi non anche il doping genetico?

Ritengo che ci sia una grossa differenza tra assumere un farmaco e cambiare in modo definitivo il proprio DNA. Quest’ultimo è infatti un procedimento estremamente complesso e rischioso, che potrebbe portare a gravissime conseguenze per la salute dell’atleta. Inoltre non è stato ancora messo a punto per importanti malattie genetiche figuriamoci per fini dopanti. Come ho già detto, ritengo quindi estremamente improbabile che possa essere utilizzato questo approccio per fini dopanti.

Claudio Gilardelli


PARTE 3

Quando si ha la vittoria nel sangue

Wada - doping


Non esistono solo farmaci e sostanze dopanti. Ci sono anche pratiche che possono dare “una marcia in più”. Ovviamente in modo illecito. La più nota è l’autoemotrasfusione. Proviamo a capire meglio di cosa si tratta. Claudio Gilardelli

Terza parte dell’intervista realizzata al dott. Carlo Giammattei, medico sportivo presso il Dipartimento di Ortopedia Medicina e Traumatologia dello Sport dell’Az. USL 2 Lucca diretto dal prof. Enrico Castellacci, medico della Nazionale di calcio italiana. Abbiamo parlato di un argomento molto “caldo”: l’autoemotrasfusione.

In cosa consiste l’autoemotrasfusione?

Consiste nel prelevare una quantità del proprio sangue (autoemo-), spesso viene effettuata dopo un allenamento in altura che lo arricchisce di globuli rossi, per poi rimetterlo in circolo alla bisogna con una normale trasfusione. Tale pratica assicura all’atleta un numero maggiore di globuli rossi nel sangue che permettono un apporto di ossigeno nell’unità di tempo nelle zone periferiche del corpo superiore a quello che si avrebbe normalmente senza autoemotrasfusione.

È una pratica dopante che effettuata una volta dà poi benefici per i mesi successivi efficacemente?

L’autoemotrasfusione è una pratica che dà benefici a lungo termine: i vantaggi si possono prolungare per tre-quattro settimane. Necessita però di grosse strutture consenzienti che permettano di conservare il sangue prelevato fino al momento del suo utilizzo. In Italia (ma anche all’estero), il sangue è sottoposto a molti controlli e nessuna struttura, sia essa pubblica o privata, può accettare sangue di provenienza sconosciuta senza commettere gravi infrazioni della legge. È evidente allora che l’autoemotrasfuzione può essere fatta solo appoggiandosi a strutture illegali o che agiscono nell’illegalità. In Austria di recente è stato scoperto uno di questi laboratori “consenzienti”.

Davvero? Mi dica qualcosa di più, per favore.

Si tratta del laboratorio viennese Humanplasma, sotto inchiesta poiché secondo gli inquirenti vi si svolgevano pratiche ematiche dopanti. Infatti, come si ricava da quanto comparso sulla stampa, si sospetta che dal 2003 al 2006 Martin Kessler, ex coach dei canottieri austriaci, Waltr Mayer, ex allenatore di sci nordico, e Stefan Matschiner, manager del ciclista Bernhard Kohl, ora ritiratosi, avrebbero sottoposto circa 30 atleti a doping ematico in quel laboratorio. I giornali riferiscono che Kessler avrebbe parzialmente ammesso qualcosa, confessando che alcuni suoi atleti in passato depositarono sacche di sangue presso Humanplasma senza però sottoporsi alla successiva autoemotrasfusione. Le indagini sono tuttora in corso. In precedenza, un’inchiesta analoga fu quella riguardante il laboratorio del medico spagnolo Eufemiano Fuentes, considerato la figura cardine dell'Operacion Puerto. In entrambi i casi però non sono state trovate prove a carico di nessun tennista.

L'autoemotrasfusione di quanto può aumentare le prestazioni nell'ambito di una disciplina a prestazione prolungata e multiforme come il tennis?

Una maggior ossigenazione nell’unità di tempo nelle zone periferiche del corpo, protratta per un periodo che può durare tre-quattro settimane è sicuramente un indubbio vantaggio, ma non possono fare di un ottimo atleta un campione. Questo è un punto importante da sottolineare: con l’autoemotrasfusione non si possono creare campioni. Un atleta eccezionale lo è anche senza tale pratica e di sicuro non lo diventa col doping ematico se non lo era già in partenza. La mia opinione è che i risultati si possono ottenere lavorando duramente sulle proprie potenzialità cercando di superare i propri limiti in maniera naturale senza dover essere dipendenti, anche psicologicamente, da pericolose pratiche dopanti.

L’autoemotrasfusione è pericolosa? Quali effetti collaterali può avere?

Certamente che è una pratica pericolosa. I maggiori rischi sono legati ad una non idonea conservazione del sangue. Inoltre vi sono i rischi dovuti ad un sovraccarico di sangue per l’apparato cardiovascolare.

L’autoemotrasfusione porta a valori fisiologici del sangue alterati rilevabili? Se sì, con quali esami?

L’autoemotrasfusione porta ad avere un numero di globuli rossi maggiore rispetto alla norma. Tuttavia a oggi non è possibile distinguere con un test se essa sia dovuta a una pratica ematica dopante o, ad esempio, a un allenamento in altura del tutto lecito. Per ora è possibile solo scoprire se è stato trasfuso sangue compatibile – non appartenente cioè alla persona oggetto della trasfusione ma a un altro donatore – attraverso l’analisi con marcatori che risultano diversi da individuo a individuo. Un test che dovrebbe riuscire anche a smascherare casi di autoemotrasfusione è però allo studio. Si tratta di una metodica in grado di individuare in una popolazione di globuli rossi quelli più vecchi (emotrasfusi) e/o fragili (stato dovuto alla conservazione che indebolisce notevolmente le cellule ematiche). Tuttavia questo test non è ancora a disposizione.
Farmaci noti, invece, come ad esempio l’Epo o gli steroidi, sono facilmente rilevabili ai test antidoping e quindi è molto difficile per professionisti di un certo livello farne uso senza essere scoperti, mentre è più semplice per gli amatori e dilettanti dove i controlli sono molto scarsi.

In attesa di test diretti, non è stato escogitato nulla per poter individuare i disonesti?

Sì certo, qualcosa si sta facendo. Ad esempio, per i ciclisti è stato istituito il passaporto biologico: è un profilo ematologico ed in futuro anche ormonale steroideo dell’atleta ottenuto dalla comparazione di parametri ottenuti da una serie di esami del sangue e delle urine condotti un in determinato periodo di tempo. Questo profilo è assolutamente personale, fotografa le condizioni “normali” dell’atleta e serve da parametro di confronto per valutare i valori ottenuti nei test di controllo eseguiti sull’atleta in gara o in allenamento. È chiaro che in questo modo l’uso di un qualsiasi farmaco non noto o fuori commercio che non sia reperibile ai test può essere ipotizzato da una alterazione significativa dei valori del profilo “standard” dell’atleta. Ovviamente, è importantissimo che il profilo sia il più accurato possibile così da fissare le caratteristiche di ciascun atleta in modo molto preciso e evidenziare agevolmente qualsiasi variazione sospetta, anche minima. Per i tennisti però non è stato pensato a nulla del genere, almeno per ora.

Il tennis è uno sport in cui si ritorna alla "base" pochissimo durante l'anno. Si può dire che questa caratteristica è importante per affermare che nel tennis l’autoemotrasfusione non esiste come pratica in quanto è più difficile da eseguire rispetto ad altri sport?

Direi di no. A mio avviso potrebbe essere molto complicato praticarla quando l’atleta è in viaggio ma non impossibile. Nel caso un tennista voglia effettuare un’autoemotrasfusione sarebbe indispensabile avere un centro di appoggio nelle città in cui giocherà o nelle sue vicinanze, se vuole sfruttare l’effetto nelle settimane successive. Facciamo un esempio. Se devo giocare Wimbledon dal prossimo 21 giugno e volessi, per questo torneo importantissimo, “avvantaggiarmi” sui miei contendenti in modo disonesto con pratiche ematiche dopanti, potrei appoggiarmi a un laboratorio specializzato a Londra in cui ho depositato preventivamente una o più sacche di sangue. In alternativa, la struttura consenziente potrebbe essere in una delle città in cui ho disputato un torneo nelle tre settimane precedenti a Wimbledon (Roland Garros a fine maggio, Halle o Londra dal 7 giugno, 's-Hertogenbosch o Eastbourne dal 13 giugno, ndr). In questo caso, però, devo avere la certezza che sarò sicuramente a giocare quel torneo in quella città in modo da depositare per tempo le sacche di sangue presso il laboratorio che mi sta aiutando. È chiaro che qualunque contrattempo che non mi permetta di essere presente nel luogo dove mi sono attrezzato per l’autoemotrasfusione manderebbe in fumo tutti questi sforzi. Infatti sarebbe difficile trasportare in tempi utili una sacca dal centro di appoggio prescelto in un altro centro situato in un'altra città o nazione e che sia anch’esso consenziente. Insomma, se un tennista in giro per il mondo per quasi tutto l’anno volesse praticare l’autoemotrasfusione dovrebbe organizzarsi scrupolosamente e nei dettagli, valutando attentamente anche gli imprevisti che spesso possono colpire chi è in viaggio. Comunque mi sembra una possibilità piuttosto remota visto le severe leggi che in ogni nazione regolano i depositi di sangue. Non riesco ad immaginare un laboratorio in Inghilterra, in Francia o in altri paesi europei che si possa prestare a queste pratiche.

I farmaci invece sono più facili da trasportare se devo spostarmi spesso di nazione in nazione?

Io non saprei proprio come eludere i controlli doganali negli aeroporti (ad esempio) trasportando farmaci dopanti. Poi c’è chi riesce a trasportare chili di droga e a farla franca.

È possibile secondo lei che gli atleti più ricchi possano avere la possibilità se lo volessero di organizzare una 'struttura' che li aiuti in tal pratica ematica dopante senza così appoggiarsi a centri o laboratori consenzienti?

Una persona con grandi possibilità economiche potrebbe in teoria avere la possibilità di allestire uno spazio con la strumentazione adatta per la conservazione del sangue. Tuttavia, c’è bisogno per gestire un laboratorio del genere di personale qualificato esperto in medicina trasfusionale. Non è certo una cosa che si può fare in casa propria senza passare inosservati. La via più praticabile è appoggiarsi a qualche centro specializzato consenziente. Ma come ho detto prima per atleti che viaggiano molto e si spostano in località diverse ogni settimana come i tennisti è necessaria un’organizzazione così precisa e meticolosa da rendere improbabile il ricorso a una tale pratica durante la stagione.

Com’è la legge italiana in materia di doping?

La legge dello stato italiano contro il doping è molto severa ed è stata presa ad modello anche da numerosi altri stati. Ad esempio basti pensare che da noi è punita anche la detenzione di sostanze dopanti ed è addirittura considerato doping l’uso di camere ipobariche, mentre all’estero è prassi comune al posto dell’allenamento in altura.

In conclusione a questa intervista vuole aggiungere qualcosa? Lanciare un messaggio?

La mia preoccupazione è sempre l’eccessivo interesse e curiosità che questi argomenti suscitano soprattutto in chi pratica sport. Sarebbe importante invece si capisse che parlare di doping equivale a parlare di droga, di sostanze illegali, di qualcosa al di fuori della legge, di una cosa di cui vergognarsi.
Questo è il messaggio che i dirigenti e gli allenatori dovrebbero diffondere soprattutto a livello giovanile, dove il concetto di legalità e di rispetto delle regole dovrebbe il principio fondamentale da far acquisire nelle categorie giovanili.
A livello professionistico vanno invece fatti controlli sempre più frequenti e soprattutto a sorpresa, fuori dalle competizioni ed in caso di riscontro di positività le pene devono essere sempre più severe, devono prevedere il pagamento di grosse multe ma soprattutto periodi di squalifica sempre più lunghi.
Dato che questi controlli sono molto costosi si dovrebbe obbligare ciascun tennista professionista a destinare una percentuale dei propri guadagni alla lotta al doping.
Con controlli sempre più precisi e frequenti bisogna arrivare alla situazione in cui doparsi sia svantaggioso per l’atleta in quanto la possibilità di venir scoperto sia sempre più elevata e che porti a gravi danni economici ed alla fine della carriera agonistica.


Claudio Gilardelli

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