Quando le sostanze dannose messe al bando negli sport possono rivelarsi preziosi strumenti per lo sviluppo
di nuove terapie e cure per la vita di tutti i giorni dei cittadini

UNA MEDICALIZZAZIONE INACCETTABILE DELLA SOCIETA'

SVIZZERA - Il parere di un esperto sui Giochi Olimpici di Pechino

Per Martial Saugy, direttore del Laboratorio svizzero di analisi del doping, l'impiego di sostanze dopanti è una forma di medicalizzazione della società, che non può essere tollerata. L'esperto fa il punto sulla lotta al doping in vista dei Giochi olimpici di Pechino.

Dall'atletica al triathlon, passando per il sollevamento pesi o il ciclismo, il problema del doping ha toccato negli ultimi decenni diverse discipline sportive che fanno parte dei Giochi olimpici. Numerose vicende scandalose di partecipanti che hanno impiegato sostanze illegali per vincere delle gare, come quella dello sprinter canadese Ben Johnson nel 1988, hanno segnato la storia delle Olimpiadi.

Anche l'ultima edizione dei Giochi, ad Atene nel 2004, è stata macchiata da diversi casi di doping, che hanno portato tra l'altro all'estromissione dell'atleta greco Kostas Kenteris e della collega Ekaterini Thanou. Questo fenomeno sarà di attualità anche alle Olimpiadi di Pechino? La parola a Martial Saugy, direttore del Laboratorio svizzero di analisi del doping a Losanna, accreditato dall'Agenzia mondiale antidoping.

Negli ultimi anni numerose nuove sostanze dopanti sono venute alla luce nel corso di grandi eventi sportivi. Quali nuovi prodotti potrebbero fare la loro apparizione alle Olimpiadi di Pechino?

Martial Saugy: Già ad Atene si attendeva l'avvento del doping genetico e delle terapie genetiche. I progressi compiuti in questo campo sono però ancora troppo ridotti. Non credo quindi che degli atleti siano disposti ad assumersi questi rischi.

Personalmente prevedo piuttosto un nuovo "cocktail" di sostanze illegali, in grado di migliorare le prestazioni e rafforzare la produzione di ormoni endogeni. In quest'ambito non escludo che degli atleti abbiano sperimentato nuove soluzioni.


Secondo l'esperta di doping Ines Geipel, ex atleta della Germania orientale, il doping genetico sarebbe già una realtà.

M.S.: Il termine doping genetico abbraccia un campo molto vasto. Si parla ad esempio di sostanze che consentono di stimolare la produzione di ormoni. Non credo però che siano già state messe a punto.

Già immaginabili sono invece dei prodotti di bioingegneria. Si tratta di derivati delle biotecnologie che non sono mai stati commercializzati sul mercato medico-farmaceutico.

La Cina sta conoscendo un vero e proprio boom anche nel settore farmaceutico. Il paese che ospita le Olimpiadi è anche un grande produttore di sostanze dopanti?

M.S.: A questo proposito vi sono già state delle discussioni con le autorità cinesi, in cui è stata coinvolta anche l'Agenzia mondiale antidoping. La Cina figura sicuramente tra i principali produttori di sostanze di base che vengono poi rielaborate in altri paesi. Lo dimostrano le statistiche degli uffici doganali, ma anche i dati raccolti dalle agenzie specializzate nella lotta contro il doping.

Vi saranno anche a Pechino - come già successo ai campionati del mondo di atletica di Soccarda nel 1993 - dei rappresentanti cinesi in grado di fare incetta di medaglie, dopo essere praticamente usciti dal nulla?

M.S.: Vi sono esperti e funzionari delle associazioni sportive che temono questo scenario. La federazione cinese di atletica ha deciso di organizzare solo a fine luglio le prove valide per le qualificazioni dei propri atleti ai Giochi. Questo fatto non contribuisce molto ad attirare la fiducia.

Personalmente sono però piuttosto ottimista. Per la Cina, che mira ad aprirsi al mercato mondiale, sarebbe una pessima operazione di marketing, se i suoi atleti dovessero dominare in modo dubbio alcune discipline sportive.

È chiaro che tutti vogliono essere competitivi. È un fatto che rientra d'altronde nell'interesse dello sport. Ma, oggi, la situazione è totalmente diversa rispetto ai campionati del mondo di Stoccarda del 1993.

Lei ha proposto di introdurre una sorta di passaporto del doping per gli atleti. Che cosa spera di ottenere con questa proposta?

M.S.: I metodi utilizzati oggi per verificare l'impiego di sostanze illegali hanno dimostrato i loro limiti. In modo particolare perché non sempre i controlli giungono al momento giusto.

Questo passaporto ci consentirebbe di disporre di un profilo preciso di ogni atleta su un lungo periodo di tempo. Dei mutamenti importanti potrebbero così essere riscontrati molto rapidamente, indipendentemente dal momento in cui vengono effettuati i testi ufficiali.
Per gli atleti diventerà più difficile modificare i loro parametri – ad esempio quelli relativi al testosterone, agli ormoni della crescita, agli ematocriti o all'emoglobina – senza correre il rischio di farsi scoprire. Gli ormoni della crescita ad esempio si riscontrano in diversi parametri fisici, dal momento che influenzano numerose funzioni del metabolismo.

Gli esperti impegnati nella lotta contro il doping sono spesso in ritardo di uno o due passi rispetto a coloro che mettono a punto queste sostanze. Come riesce a trovare la sua motivazione per proseguire questa lotta impari?

M.S.: Secondo me non possiamo accettare una medicalizzazione della società. I problemi professionali – tra i quali figura anche lo sport – e quelli della vita quotidiana non possono essere risolti con l'impiego di medicinali.

Personalmente sono un appassionato di sport e bevo volentieri un bicchiere di vino in occasione ad esempio di una festa. Ma non utilizzo delle anfetamine per sentirmi meglio il giorno dopo. E non voglio che i miei figli siano costretti ad assorbire sostanze dopanti per poter esercitare uno sport.

intervista a cura di Renat Künzi

(traduzione e adattamento Armando Mombelli)

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